Cenni storici
Le Mainarde, specialmente nella parte più ricca e fertile che giace ai piedi della catena, furono certamente abitate fin da tempi antichissimi, come i risultati delle prime sporadiche ricerche paleontologiche e paletnologiche hanno già dimostrato. Se la vicina Isernia ha restituito gli straordinari resti di un accampamento preistorico risalente addirittura a oltre 700 mila anni fa, da ominidi cacciatori nomadi presumibilmente appartenenti all'Homo Erectus, un antico progenitore dell'Homo Sapiens, quest'ultimo frequentava regolarmente l'Appennino intorno a 18-20 mila anni or sono, seguendo i branchi degli animali selvatici in migrazione stagionale dal basso verso l'alto; stazionando quindi d'inverno nelle caverne ai margini dei laghi pleistocenici e dei fiumi di bassa quota, e spingendosi invece oltre le foreste, fino agli alti pascoli, durante l'estate. Intraprendeva così una lunga consuetudine, che con la progressiva domesticazione di alcuni animali (e soprattutto della pecora, discendente dal muflone), ma anche in virtù dell'arrivo di nuove genti, mandrie e consuetudini pastorali provenienti dall'Oriente, doveva dar vita al fenomeno importantissimo della «transumanza». Una sorta di nomadismo verticale, largamente praticato per millenni in tutta l'area circummediterranea allo scopo di «ottimizzare» lo sfruttamento delle risorse di pianura e di montagna - insufficienti se separate tra loro a sostenere l'allevamento di grandi mandrie di erbivori - non diversamente da come fanno gli uccelli migratori, attraverso i loro spostamenti stagionali, spesso intercontinentali.
Benché ormai al crepuscolo, la pastorizia transumante è stata sicuramente il fattore che ha modellato in modo più netto e profondo il paesaggio e la natura dell'Appennino, e quindi anche delle Mainarde, che con il loro andamento rappresentavano quasi una titanica scalinata per ascendere dalle acque e coltivazioni della piana ai dolci e freschi pascoli vicini al cielo. Sull'altopiano della Ferruccia sono tuttora presenti i resti di due «giacci», i recinti di pietra con capanna per contenere pastori e pecore. Più tardiva, e certamente più limitata, fu poi l'influenza dell'attività agricola, soggetta tra l'altro a cieli discontinui e a cambiamenti periodici.
Ai piedi delle Mainarde, ammantate di boschi e più in alto candide di neve fino al principio dell'estate, in un «paesaggio dolce e possente, di serenità claustrale», come lo definì Amedeo Maiuri, si avvicendarono poi uomini di varie origini e culture. La piana delle fonti del Volturno, come gran parte dell'antico Sannio, vide penetrazioni etrusche e civiltà sannitiche, dominazioni romane e incursioni saracene. Ma soprattutto ospitò la seconda «città santa» che i monaci di San Benedetto crearono nel cuore dell'Italia verso il principio del secolo VIII. Si dice che la fondazione avvenisse intorno al 702 ad opera di tre nobili beneventani, Tatone, Tasone e Paldone, sul luogo dove già esisteva un piccolo oratorio dedicato a San Vincenzo. Meno d'un secolo dopo, l'abbazia aveva raggiunto gran fama, contava mille persone tra monaci e laici; prima della devastazione saracena dell'881 era una delle massime espressioni del movimento carolingio e occupava le posizioni di testa dei grandi monasteri benedettini dell'Europa altomedievale. Qui, secondo la tradizione, si recò in visita Carlo Martello nel 715, e transitò nel 775 lo stesso Carlo Magno al ritorno dalla conquista del castello di Triverno. Per alcuni secoli la comunità benedettina prosperò floridissima, finché due successive incursioni di feroci pirati saraceni, nell'860 e nell'881, non la distrussero completamente. Oggi se ne possono visitare la chiesa e il monastero parzialmente ricostruiti nel dopoguerra, e la straordinaria cripta di San Lorenzo, quasi totalmente sotterranea e quindi scampata alle distruzioni saracene.
La storia delle Mainarde scorre senza eventi straordinari nei secoli successivi, ma scavando a fondo è ricca di episodi significativi e vicende singolari: come quella del pittore francese Charles Moulin, che dopo aver conquistato nel 1896 il Premio Roma, lasciò Villa Medici per trovare ispirazione e ristoro in una modesta capanna sull'ultimo picco occidentale di Monte Marrone, immortalando l'ambiente circostante in una serie di quadri suggestivi.
Proprio Monte Marrone fu teatro, nell'ultima guerra mondiale, di un episodio bellico straordinario: allorché le truppe tedesche attestate sulla Linea Gustav, tra Cassino e Ortona a Mare, avendo saldamente occupato le vette e le creste delle Mainarde, vennero sorprese all'alba del 31 marzo 1944 dal battaglione alpino «Piemonte», del I Raggruppamento Motorizzato Italiano, al comando del generale Umberto Utili, che aveva aggredito le postazioni dalla parete più inaccessibile e, quindi, inattesa. Fu un evento decisivo per le sorti del conflitto in quella zona, perché non solo costrinse alla ritirata l'esercito tedesco, ma segnò l'avviamento della resistenza, con la nascita del Corpo Italiano di Liberazione forte di 25 mila uomini, che partecipò attivamente alla riconquista del Paese.
Alle falde di Monte Marrone un imponente monumento nazionale, meta di visitatori d'ogni parte d'Italia, ricorda i Caduti del Corpo Italiano di Liberazione, mentre sulla vetta dello stesso monte un'aquila di bronzo segnala la prima vittoria dei soldati italiani dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e sulla sovrastante cima di Monte Mare resistono al tempo le trincee tedesche della citata linea Gustav.