IL TARTUFO
"Sta fra quelle cose che nascono ma non si possono seminare", scrive del tartufo Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia, e lo descrive come un’essenza in grado di sopravvivere senza radici, una callosità della terra, quasi una sua malattia. In verità per lunghi secoli il tartufo, consumato ed apprezzato fin dai Sumeri intorno al 1700 a.C., ha suscitato interesse misto a timore per la difficoltà di comprendere e riconoscere la sua identità biologica, ispirando le teorie più bizzarre per la difficoltà di classificarlo e riconoscerlo; come quella di Plutarco, che lo riteneva la combinazione di acqua, calore e fulmini, figlio di un lampo scagliato da Giove sulla terra o di una folgore sfuggita a Vulcano. Queste teorie generarono vere e proprie dispute tra filosofi e scienziati per la definizione della natura di questo strano frutto della terra e alimentarono l’alone di mistero che lo ha sempre circondato, al punto che la tradizione popolare non sapeva se identificarlo come come animale o vegetale, ritenuto comunque velenoso, frutto del diavolo e cibo per le streghe. Tutte queste credenze, tuttavia, non limitarono il suo l’uso in cucina, specie sulle mense di re e alti prelati. Nell’ ‘800, superate quasi del tutto le diffidenze, il tartufo ebbe dei testimonial di tutto rispetto in Cavour, lord Byron, che si vuole lo tenesse sulla scrivania per trarre ispirazione dai suoi profumi, Alexandre Dumas e Gioacchino Rossini che ebbe a definirlo “il Mozart dei funghi”.
Il tartufo ottenne la consacrazione gastronomica vincendo nel IV secolo avanti Cristo il primo premio di un concorso gastronomico ad Atene con il piatto "Pasticcio Tartufato alla Chiromene".Keripe conquistò onore e fama per la sua capacità di cucinare i tartufi e per aver introdotto nuove ricette. [pagebreak]
Da cibo per ricchi a soggetto di studio il passo fu breve; il primo studioso che si occupò di tartufi fu senza dubbio Teofrasto, (filosofo greco che morì nel 287 a.C.discepolo di Aristotele), che lo considerava una pianta priva di radici circondata dalla terra,senza nessun filamento, prodotto dall' unione della pioggia con il tuono nelle grigie giornate autunnali.
I romani consideravano moltissimo le terfeziacee, tanto che Nerone lo considerava cibo degli Dei. Tutta l'èlite culturale di Roma subì il fascino di questi succedanei dei tartufi; Cicerone, Plutarco, Giovenale, Plinio, Porfirio e Locullo lo amavano come pochi. I tartufi che facevano impazzire i romani erano le terfezie e le tirmanie della Cirenaica(Libia); Plinio il vecchio, nella sua "Naturalis Historia" ci informa che la patria dei prelibati tartufi è la "laudatissima Africa" dove cresceva la terfezia prodotta copiosamente anche nei territori limitrofi a Damasco, (la terfezia è presente in Sardegna dove viene chiamata Tuvara de arenas, corrispondente alla Terfezia Magnusii Matt.). I romani non ebbero la fortuna ne l'intuito del figliol prodigo che contendeva ai maiali le ghiande, le terfezie e le tirmanie che crescevano sotto le quercie in Palestina,ignoravano l'arte di pascolare i porci non poterono trarne profitto e gli straordinari tartufi bianchi(Magnatum Pico), e i tartufineri pregiati(tuber melanosporum Vitt.), non entrarono a far parte della loro raffinatissime ricette. Questo nonostante che Roma avesse come imperatore un cittadino di Alba "Publio Elvio Pertinace"; purtroppo allora ad Alba il suo famoso tartufo era conosciuto solo ai cinghiali e ai maiali e i romani perdettero quella che si può definire un'occasione storica per far conoscenza dei tartufi, che rispetto alle terfezie e le tirmanie sono come la luce rispetto all'oscurità. I tartufi che deliziavano i palati dei patrizi romani erano scadenti solo nella qualità,perchè per quanto riguardava il prezzo, questo era salatissimo, tanto che Apicio nel suo "De re coquinaria" inserisce le sei ricette al tartufo nel VII libro, dove tratta delle pietanze più costose. [pagebreak]
Nel frattempo si evolvevano gli studi sul tartufo, Plinio il vecchio lo definisce callo della terra e lo pone tra le meraviglie per la sua facoltà di crescere e di riprodursi misteriosamente. Plutarco aggiunge alla teoria di Teosfrato il calore, così da ritenere che il tartufo fosse il prodotto dell'acqua, della folgore e del calore uniti insieme. Lucullo lo volva come il tocco poetico dei suoi squisiti pranzi e Giovenale si infatuò a tal punto che giunse ad affermare che "era preferibile che mancasse il grano piuttosto che i tartufi". Il tartufo evitò per tutto il medioevo le mense frugali dell'uomo e rimase il cibo di orsi, lupi, volpi, tassi, maiali, cinghiali, topi, ecc. Il rinascimento rilanciò il gusto della buona tavola e i tartufi. Il tartufo si mise in marcia per conquistare un posto di primo piatto nelle mense dei vari signori locali e offuscare la fama immeritata delle Terfeziacee con il nome di Tuber Terrae, i tartufi di classe apparvero nelle mense dei signori francesi tra XIV e il XV secolo, mentre in Italia stava affermandosi il tartufo bianco pregiato (Magnatum Pico). Il bianco e il nero pregiato,nonostante la loro evidente superiorità rispetto agli altri tartufi,impiegarono più di tre secoli per avere il sopravvento. La prima opera organica sui tartufi non fu opera di un francese, ne di un umbro o di un marchigiano, ma di un naturalista dell'orto botanico dell'università di Pavia.Carlo Vittadini pubblicò in Milano nel 1831 la Monographia Tuberacearum in cui descrive 51 specie di tartufi e questa è l'opera che ha posto le basi dell'idnologia che trattando in modo sistematico la nomenclatura scientifica imposta alle specie, mette ordine alla materia e offre lo spunto per ulteriori studi. Nel 1862 Tulasne pubblicò a Parigi "Funghi Hipogae" in cui si parla della struttura del tartufo e come si riproduce; il Gibellini nel 1876 scoprì che il miucelio del tartufo che avvolge gli apici radicali delle piante con cui vive in simbiosi, svolge le funzioni di peli radicali, Chatin nel 1892 pubblica a Parigi "La Truffe" e scopre che i tartufi neri prediligono i terreni del mezosoico,in particolare del giurassico, mentre i tartufi bianchi prediligono i terreni del cenozoico e che il sapore dipende sia dalla qualità del terreno,sia dalla pianta con cui vive in simbiosi. [pagebreak]
Il tartufo è un frutto della terra conosciuto dai tempi più antichi. Si hanno testimonianze della sua presenza nella dieta del popolo dei Sumeri ed al tempo del patriarca Giacobbe intorno al 1700 - 1600 a.C. I Greci lo chiamavano Hydnon, i Latini lo denominavano Tuber, dal verbo tumere (gonfiare). Gli antichi Sumeri utilizzavano il tartufo mischiandolo ad altri vegetali quali orzo, ceci, lenticchie e senape. Plinio il Vecchio nel libro della Hystoria Naturale ci narra di un pretore, tale Lartio Licinio, che si trovò nella situazione di emettere una sentenza che gli creava un enorme imbarazzo. Un ricco cittadino chiedeva un risarcimento da una persona che gli aveva donato un tartufo contenente una moneta che gli si rivelò solo quando, addentato il tartufo, gli si spezzarono i denti incisivi.
L'opinione di Plinio, nella sua veste di naturalista, era che il tartufo "sta fra quelle cose che nascono ma non si possono seminare". Plutarco azzardò l'affermazione alquanto originale che il "Tubero" nasceva dall'azione combinata dell'acqua, del calore e dei fulmini. Nel passato, non essendo ancora stabilita l'origine dei tartufi, la scienza unita alle credenze popolari coprirono il tartufo di mistero al punto che non si sapeva definire se fosse una pianta o un animale. Venne anche definito come una escrescenza degenerativa del terreno e addirittura cibo del diavolo o delle streghe. Per una ventina di secoli, si è anche discusso sulle proprietà afrodisiache del tartufo. [pagebreak]
Nel '700 il tartufo Piemontese era considerato presso tutte le Corti una delle cose più pregiate. La ricerca del tartufo costituiva un divertimento di palazzo per cui ospiti e ambasciatori stranieri a Torino erano invitati ad assistervi. Il Conte Camillo Benso di Cavour nelle sue attività politiche utilizzò il tartufo come mezzo diplomatico, Gioacchino Rossini lo definì "Il Mozart dei funghi", lord Byron lo teneva sulla scrivania perché il suo profumo gli destasse la creatività, Alexandre Dumas lo definì il Sancta Santorum della tavola.
Il tartufo nasce e si sviluppa vicino alle radici degli alberi; con esse vive in simbiosi; preferisce le radici del pioppo, del tiglio, della quercia e del salice, diventando dopo la formazione un vero e proprio parassita. Le caratteristiche di colorazione, sapore e profumo dei tartufi saranno determinate dal tipo di alberi presso i quali essi si svilupperanno. Ad esempio i tartufi che crescono nei pressi della quercia, avranno un profumo più pregnante, mentre quelli vicino ai tigli saranno più chiari ed aromatici. La forma, invece dipenderà dal tipo di terreno: se soffice il tartufo si presenterà più liscio, se compatto, diventerà nodoso e bitorzoluto per la difficoltà di farsi spazio. Le varietà del tartufo sono un centinaio, ma le specie più pregiate sono il tartufo bianco o trifola ("Tuber magnatum pico") ed il tartufo nero di Norcia ("Tuber melanosporum"). Il primo, dal profumo intenso e persistente, è diffuso in Piemonte sulle colline delle Langhe e del Monferrato, lo si trova anche in piccole zone dell'Umbria (Gubbio, Citta' di Castello), delle Marche (Acqualagna, S. Angelo in Vado), della Toscana (San Miniato), della Romagna (Valle del Montone). Il tartufo nero, dal profumo più delicato, abbonda nell'Italia centrale, specialmente in Umbria.