VICENDE ARCHITETTONICHE ED ARTISTICHE DEL CASTELLO
Il castello di Venafro, così come appare oggi, non è altro che la somma finale di una serie di trasformazioni e di adattamenti conseguenti alle numerose vicissitudini amministrative e politiche dei signori che lo hanno posseduto.
Oggi non rimane traccia visibile della murazione romana che difendeva la parte bassa della città, ma appare evidente che nel punto ove sorge il castello vi si ponesse in epoca repubblicana un elemento difensivo funzionale alla protezione dello spigolo più elevato di tutto l’impianto urbano, con possibilità di controllo visivo non solo sull’intero abitato, ma anche sulla parte di territorio situato ad oriente.
Deve ritenersi che già in epoca imperiale la sua primitiva funzione sia venuta a cessare, congiuntamente al decadere dell’utilità dell’intero apparato difensivo repubblicano e, sicuramente, per tutta la prima parte dell’alto medioevo nessuna struttura fortificata consistente protesse il misero abitato localizzato tra i ruderi di quella che era stata una fiorente città.
Pandolfo I Capodiferro, riconosciuto come il restauratore della longobardia meridionale, concedeva ai monaci di San Vincenzo al Volturno di poter costruire castelli e difese: la riorganizzazione urbanistica della città si deve all’epoca longobarda del X secolo, quando Paldefredo decise di andare ad occupare quella parte fortificata dello spigolo settentrionale della Venafro romana e di fondare il castello vero e proprio. E’ certamente sorprendente considerare che proprio subito dopo la riorganizzazione sistematica delle difese, la Longobardia meridionale andava in crisi ed i Normanni si avviavano ad esercitare il loro potere producendo sostanziali cambiamenti nella gestione politica di questa parte del territorio peninsulare. [pagebreak]
Dalla metà dell’XI secolo, infatti, si cominciarono a perdere le tracce dei conti longobardi di Venafro, ormai sostituiti da rappresentanti normanni, ma dobbiamo ritenere che la nuova conquista non abbia comportato un granchè di cambiamenti nelle strutture castellane preesistenti, anche perché le armi e le tecniche militari non erano sostanzialmente cambiate. A farci comprendere quali trasformazioni si siano effettuate tra i primi anni del nuovo millennio ed il XIV secolo non ci vengono incontro né elementi architettonici, né una sufficiente documentazione epigrafica. I restauri dovettero avvenire intorno al 1275 e consistettero non solo nella creazione di alcuni ambienti (come il portale con architrave in pietra su mensole della grande stanza a piano terra che si apre nell’androne del cortile –una delle parti organicamente riutilizzate nelle sovrapposizioni successive, ma comunque riconoscibili), ma anche nella riorganizzazione dei sistemi di avvistamento che, pur preesistendo all’intervento angioino, dovettero essere integrati nella nuova realtà amministrativa.
Fin dai primi anni del dominio angioino appare chiara la volontà di re Carlo e dei suoi successori di dare massimo impulso alla ricerca di metodologie di difesa castellane che non fossero solo di tipo passivo: la struttura longobarda, avendo caratteri di geometrica regolarità, si prestava ad una ricomposizione architettonica adatta alle nuove tecniche di guerra. Per individuare un termine il più possibile certo per la datazione delle torri, si potrebbe far riferimento all’anno 1349 quando, secondo le cronache del tempo, dell’abitato di Venafro, scosso da un disastroso terremoto, rimase in piedi solo la Cattedrale. Ne consegue che potrebbe essere attendibile l’ipotesi che grosse trasformazioni al castello siano state effettuate subito dopo il 1349, quando ancora l’organizzazione della difesa del Regno era affidata a Corrado Lupo, pur se i caratteri stilistici si rifanno a tutta l’architettura castellana dei primi anni del dominio angioino e soprattutto del periodo di Carlo II d’Angiò. A questo periodo deve dunque farsi risalire la costruzione delle fondamenta, delle tre grandi torri circolari che vanno ad integrare il sistema di difesa passivo longobardo, utilizzando anche il preesistente mastio quadrato. In questa fase il complesso assume così un carattere di particolare imponenza perché viene operata non solo una trasformazione della sua architettura, ma viene altresì avviata l’opera di modellamento dell’area circostante con la creazione di un fossato che avrebbe reso più difficoltoso qualsiasi attacco. [pagebreak]
Nel XIV secolo, a lavoro ultimato, tutta la costruzione aveva assunto un aspetto unitario e coerente con gli obiettivi funzionali della difesa attiva.
Per questo, per quasi un secolo, non fu sottoposto ad alcuna modifica. Quando però gli Aragonesi affidarono nel 1443 la contea di Venafro a Francesco Pandone, in Europa cominciava a diffondersi l’uso della polvere da sparo. Da quella data in poi, coloro che avevano la cura delle difese, si preoccuparono di apportare alle strutture castellane quei rimedi che, per quell’epoca, apparivano gli unici praticabili. Francesco Pandone fu tra i primi a rendersi conto di questi nuovi metodi di attacco, che consistevano nel provocare brecce nelle parti basamentali delle torri, fino a farle crollare, oppure che miravano a colpire da lontano i camminamenti poggianti sui beccatelli di coronamento. La soluzione più ovvia fu quella di allargare il fossato e rinforzare la base della fortificazione mediante l’apposizione di una braga merlata che raggiungeva il duplice scopo di evitare brecce alle parti strutturali e allo stesso tempo di creare un piano per il posizionamento di artiglierie di difesa. Lo stesso Francesco Pandone, che certamente fece realizzare il grande salone di rappresentanza, sul cui ingresso fece apporre un architrave in pietra di San Nazzario con lo stemma della casata, non riuscì a completare l’opera prima della sua morte. Neppure ne fu capace suo nipote Scipione che ereditò la contea di Venafro nel 1457. Le opere di ampliamento del fossato e della creazione della braga di difesa riguardarono meno della metà del perimetro del complesso e si svilupparono soprattutto sul lato meridionale. In concomitanza con queste opere fu pure completamente ristrutturata la cisterna. Scipione aveva cominciato a rendersi conto che tutta l’opera intrapresa dallo zio Francesco era da considerarsi tecnicamente già superata rispetto alla evoluzione delle armi da guerra e che bisognava passare ad una struttura bastionata se si volevano radicalmente risolvere i problemi difensivi del complesso. La fine del secolo XV segna anche per il castello di Venafro la conclusione di una serie di interventi tutti finalizzati ad adattare la struttura a scopi militari. [pagebreak]
Nel 1498 Carlo Pandone morendo lascia erede della Contea il figlio Enrico al quale va attribuita la capacità di aver determinato nel territorio venafrano una ventata di rinnovamento che si inquadra nel più vasto clima culturale del Rinascimento italiano del primo ventennio del secolo. Fu soprattutto dal 1520 che al castello di Venafro furono apportate sostanziali modifiche che lasceranno indelebile il suo ricordo nella storia della città. Abbandonata l’idea di trasformarla in una fortezza bastionata, fu operata una serie di lavori per trasformarlo in una piacevole residenza rinascimentale. Sul piano architettonico sono due le parti che rinnovano, in maniera consistente, l’antico apparato difensivo: il grande giardino all’italiana, sul lato orientale, ed il luminoso loggiato, ad occidente. Proprio l’aver commissionato la costruzione di ben nove padiglioni in legno lavorato, da sistemarsi lungo i percorsi del giardino e collegati tra loro da pergole anch’esse in legno, dimostra inequivocabilmente che si era creato un nuovo tipo di rapporto con l’ambiente circostante. Veniva insomma a privilegiarsi una visione paesistica che comunque risentiva delle nuove idee che ormai circolavano presso tutte le corti italiane. Il maestro Giovanni da Sulmona, carpentiere, si impegnava a fare un altro padiglione fuori dalle mura del giardino, davanti ad una cappella che se farà. Di questa cappella rimangono i segni di una monofora esagonale che sopravvive nella facciata laterale della casa che fronteggia l’ingresso dell’antico ponte levatoio.
Ma oltre le trasformazioni architettoniche, Enrico Pandone curò che si decorasse tutto il piano nobile del castello con una serie di pitture di cui ci sono rimaste significative tracce dopo le pesanti manomissioni operate a più riprese nei secoli successivi per adattare gli ambienti ai più disparati usi. Si tratta di un ciclo di raffigurazioni interamente dedicate ai suoi cavalli, che costituisce una straordinaria ed originale documentazione della passione che il conte venafrano aveva per essi. [pagebreak]
Il restauro completato della stanza sottoposta al loggiato permette di avere una idea chiara della tecnica adoperata e dei valori cromatici, oltre che compositivi, delle pitture, il cui autore probabilmente resterà sconosciuto. Si tratta di una tecnica mista, eseguita con il metodo dello stiacciato, cioè mediante la creazione di figure a rilievo schiacciato, realizzate in modo da esaltarne l’effetto volumetrico. E’ particolarmente interessante, nella stanza attigua al salone, l’immagine caricaturale di un personaggio dal costume orientale, con pantaloni larghi e copricapo a zucchetto con alta piuma, nell’atto di suonare una zampogna. Questo strumento musicale era già largamente conosciuto nella Valle del Volturno, come dimostra anche un affresco del secolo precedente nella chiesa di San Michele di Roccaravindola e probabilmente era usato anche nei momenti di pausa dei lavori al castello. Ugualmente singolari sono le tante rappresentazioni di caravelle, come quella che è venuta fuori nella parete della stanza che è di fronte al loggiato, o di barchette, come quelle nello sguincio della finestra della stanza sottostante il medesimo loggiato. In quest’ultimo ambiente sono rappresentati, sulle quattro pareti, altrettanti cavalli in grandezza naturale ed in posizione ferma. Sono tutti bardati con sella e finimenti da passeggio, compreso il morso. Ognuno è segnato con il marchio dei Pandone, costituito da un quadrato ruotato di 45 gradi con una piccola croce sul vertice ed una grande H al centro che ricorda l’iniziale di Henricus. Per ciascuno una epigrafe riporta il nome, la razza e le caratteristiche. [pagebreak]
Un particolare, apparentemente marginale ma sicuramente originale e significativo per comprendere il clima che aleggiava nell’ambito della vita familiare e di corte di Enrico, è costituito da una figurazione che appare in questa stanza al di sopra della porta. Si tratta probabilmente della schematizzazione di un gioco che ritroviamo fino a qualche decennio fa nella tradizione infantile venafrana e che va sotto il nome di gallo zoppo (ualle ciuoppe), una variante del gioco della campana. Da un medaglione a cerchi concentrici decorati con semplici motivi floreali si dipartono otto raggi simmetrici, con terminazione a doppio uncino, che raggiungono, senza toccarla, una fascia perimetrale costituita da una coppia di cerchi rossi. Un cerchio nero più largo, ugualmente concentrico, definisce il limite del disegno che, nella pratica del gioco veniva eseguito su un piano orizzontale. Sul filo interno ed esterno del cerchio nero più grande, in corrispondenza dei raggi, sono riportate, a due a due, le sagome del piede del giocatore nei vari momenti, per complessive 16 posizioni, con il limite da rispettare e la posizione da tenere. Da come sono poste le sagome si desume che dovevano essere compiuti almeno sedici saltelli, prima su un piede e poi sull’altro, senza calpestare la linea nera, salvo che in due punti diametralmente opposti.
In un’altra sala, su una delle pareti corte, vi è raffigurato uno dei cavalli più importanti e cioè quello che dovrebbe essere stato donato a Carlo V per ringraziarlo della concessione della contea di Boiano. Sulla parete di fronte vi è l’immagine del cavallo che ha la bardatura più decorata per avere una sella così lavorata da sembrare coperta da un broccato di velluto a motivi floreali. Inoltre sul posteriore pendono tre cinghie ornamentali, secondo un modello che ritroviamo particolarmente rappresentato nelle pitture analoghe del secolo precedente. [pagebreak]
Degli altri cavalli della sala si sono quasi completamente perdute le epigrafi e sono recuperabili solo parzialmente quelli della parete lunga, opposta alle finestre. Sulla parete opposta, l’ampliamento delle aperture nel XVIII secolo e la creazione abbastanza recente di una tramezzatura, ha quasi totalmente fatto scomparire ogni pittura. Dalle caratteristiche delle selle e soprattutto dei morsi nonché delle staffe si desume che i cavalli ritratti in questa sala erano adatti ai combattimenti. Ma il conte venafrano allevava anche cavalli da corsa che dovevano essere particolarmente richiesti.
Ed è questa l’ultima testimonianza della presenza di Enrico Pandone nel castello di Venafro. Esattamente un anno dopo egli tradiva Carlo V per schierarsi a favore di Lautrec: una decisione che lo avrebbe portato al patibolo e avrebbe definitivamente cancellato il nome della sua casata dai feudatari che si avvicendarono sulle terre venafrane.
Per molti anni nel castello non abitò più alcun feudatario e forse solo agli inizi del XVII secolo qualche lavoro fu effettuato per adeguarlo alle esigenze dei nuovi padroni che lo tennero in possesso, più che altro, attraverso propri amministratori. Nella figurazione araldica posta sul portale del salone, al disopra dello stemma a rilievo dei Pandone, infatti, rimane il ricordo della presenza dei Peretti-Savelli nel dominio della città nel XVII secolo.
Il castello di Venafro, G. Morra, F. Valente, Edizioni Enne, 1993