È pronto viene spedito in questi giorni agli abbonati “Il Foglio volante” di Gennaio 2011. Vi compaiono, testi di Bastiano, Loretta Bonucci, Enzo Bonventre, Gaetano Calabrese, Aldo Cervo, Carmelo Cimino, Franca Cipriani, Mariano Coreno, Leone D’Ambrosio, Giorgio Fontanelli, Maria Giusti, Amerigo Iannacone, Pietro La Genga, Carlo Onorato, Piero Simoni, Gerardo Vacana.
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Riportiamo, qui di seguito, il testo di apertura, una lettura di Piero Simoni della poesia XIV di Giorgio Fontanelli tratta da Georgicon, Scheiwiller 1973. Giorgio Fontanelli (Livorno 1925-1995) fu drammaturgo e poeta, critico teatrale.
Giorgio Fontanelli e i vecchi
C’è il latte all’ospizio ogni sera.
Perché non li lasciano bere?
Sarebbe piú facile tutto,
finanche ignorarli od odiarli.
Quegli altri, là fuori, gli basta
un quarto di vino e d’un tratto
inventano il tempo e perfino
i gesti e le frasi che aggiustano
gli errori di tutta una vita.
Eppure si sogna lo stesso.
Che un giorno la suora ti avverta
che s’è liberata una stanza
magari anche senza finestre.
Per questo c’è sempre qualcuno
che mette da parte monete
che scalda di febbre, e farfuglia
che lui deve vivere piú a lungo
di tutti quegli altri, finché
non si sia comprato il suo posto
almeno nel campo dei morti.
E gli altri lo guardano zitti.
Sono quelli che possono morire
a un giorno, a un’ora qualunque.
Per loro sarà come sempre,
sarà come ora all’ospizio,
la stessa vergogna a ricevere
i figli cosí, in mezzo agli altri.
Sarebbe piú facile tutto, in questo tutto vi è la piú celere risoluzione per chi è ospite della casa di riposo, che vedrebbe il suo tempo finale, di agonia alla vita, drasticamente ridotto. Anche per coloro che devono accudirli, materialmente e amministrativamente, sarebbe piú facile: meno impegno di personale, meno stanze da pulire, letti da rifare. “Casa di riposo”, una denominazione che è ironia della sorte, visto che può costituire, quella forzata degenza, un’anticamera dell’inferno, forse già l’inferno morale e fisico su questa terra.
A chi è fuori può bastare un quartino di vino per inventarsi il tempo; è proprio il tempo che manca quando si è al ricovero, il tempo della vita, quella associativa, quella che ci coinvolge con i familiari e con le vicende di ogni giorno. Quando si è all’ospizio, il tempo si arresta, le luci si spengono, il sole non guarda e non scalda piú, si avverte l’incolonnamento nel corridoio, con una moltitudine, verso la stanza terminale, senza appello, senza “ma”. Il mondo fuori è altro, gira per conto suo, in un vortice che può non piacere, dal quale ora, come anziani, si è esclusi. Altro era la vita, qualsiasi vita, pur di rimanere. Il tempo, chi è della vita, non ne fa tesoro, lo spreca in mille ammennicoli, in mille contorte viuzze; il tempo, quel che ci è dato, sfiorato dai raggi del sole, dai baci, è l’unico grande, vero, tesoro. Chi ha il tempo è un signore, chi ha la possibilità di vivere liberamente il suo tempo è un gran signore; non la ricchezza economica, ma i sogni, conta il tempo di sognare, come hanno i giovani, loro sognano e per questo sono gioviali, sorridenti, felici. All’ospizio non c’è piú il tempo per sognare, ma solo quello di raccogliersi, di sparire. È una legge naturale certo, si vive e si dovrà poi morire, tutti, ma fa male, fa male il pensarlo, quando si è vicini, fa male quando ne si è coinvolti: la cognizione della fine, certificare in sé stessi, e in chi ci circonda, che il processo è inesorabile, inarrestabile. Sarebbe meglio se si risolvesse, dopo un’adeguata presenza, improvvisamente, senza il tempo di prenderne sufficiente coscienza, ma non è sempre cosí.
Si inventano gesti e frasi che aggiustano gli errori commessi; finché si è ancora coinvolti negli accadimenti della vita, si può ancora rimediare a qualcosa, si può anche barare agli altri e a noi stessi, si può costruire e inventare una felicità artificiale, ma la luce è un’altra cosa; quando si è definitivamente al margine, non si può piú rimediare a nulla, il tempo è scaduto. Nulla che possa divertirci, nulla che costituisca felicità, visto l’abbandono, visto lo stato di mendicanza in cui si riversa: atroce condanna dell’anima, guardare ancora alla vita, mentre il corpo sta morendo.
In questo terminale dell’esistenza, si spera in qualcosa, che un giorno si liberi una stanza tutta per noi, che ci faccia piú appartati dal volgo vociferante; i vecchi, oltre a rompere il silenzio, taluni si fanno i bisogni addosso, vomitano, dormono in pose scomposte, innaturali, al tavolo di cucina, fra gli altri tavoli: un girone del lamento, della piaga umana, qualcosa che non ha piú nulla della gioia negli occhi dei bimbi riposta, l’anticamera già dell’inferno. Qualcuno farfuglia di voler vivere di piú per mettersi qualche soldo da parte, ed avere almeno al camposanto un suo posto, tutto suo, che nessuno poi andrà a vedere a rinfoltire e sostituire i fiori di plastica, con l’erba alta del colore dell’abbandono. Triste quadro l’andare avanti e indietro per il cimitero, i garofano in mano, a rinnovellare i pensieri che non possono essere ascoltati, ma ciò acquieta l’animo di chi è vivo.
Gli altri in silenzio lo guardano. Coloro che fra i poveri sono gli ultimi, nella società sempre al margine, a subire ogni angheria, ogni speculazione, ed ora, anche al ricovero, non hanno diritto a niente, possono morire in ogni istante; per loro, la comune vergogna di ricevere i figli fra gli altri, senza diritto ad uno sguardo privato. Anche se la fine tutti ci rinserra, vi è distinzione nella miseria, vi sono vari stadi di povertà, ci sono sempre i piú umili fra gli umili, i piú miserabili fra i poveri, perché il grado di sofferenza che ci viene consegnato non è per tutti uguale; ciascuno si dovrà avviare all’ultima stanza, quella in fondo al corridoio, ma c’è chi vi arriva con gli agi. Lo sguardo di Fontanelli, in questa lirica, oltre ad interessarsi di uno stadio della nostra esistenza, quello della miseria umana, fa distinzione in questo frangente, cogliendo e velando d’amore fraterno chi, sul globo che ruota, ha avuto per sé, in serbo, ancor meno calore, piú colma la propria individuale sofferenza.
Visto dall’alto, dalla distanza abissale dell’universo, che fa la stella di nostra pertinenza una fra le tante, le centinaia e centinaia del firmamento, che ci fa piccoli piccoli nello spazio e nel tempo infinito, bisogna osservare che l’uomo, nella sua organizzazione sociale, nella sua umana comprensione per la fragilità che in sé stesso incorpora, non dà una bella prova di sé.