È uscito e viene spedito in questi giorni agli abbonati il mensile letterario e di cultura varia “Il Foglio volante - La Flugfolio” di dicembre 2009 in cui compaiono scritti di Ferdinando Banchini, Aurelia Bogo, Loretta Bonucci, Enzo Bonventre, Aldo Cervo, Francesco De Napoli, Lino Di Stefano, Alessandra Ferrari, Alfonso Gatto, Stefy Grimieri, Idolo Hoxhvogli, Amerigo Iannacone, Antonia Izzi Rufo, Antonio Lanza, Pierangelo Marini, Giuseppe Napolitano, Silvana Poccioni, Massimo Spelta.
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Riportiamo qui, di seguito, il pezzo di apertura su Alfonso Gatto e una sua poesia.
Alfonso Gatto a un secolo dalla nascita
Cento anni fa, il 7 novembre 1909, nacque a Salerno Alfonso Gatto, uno dei piú significativi rappresentanti dell’ermetismo, tra i piú rappresentativi dei poeti novecenteschi. Recentemente, opportunamente, Mondadori ha pubblicato Tutte le poesie. Del volume si può dire solo bene, trattandosi di una raccolta esaustiva, ordinata e curata col sentimento di un critico attento come Silvio Ramat, puntuale nella presentazione dei testi e nelle note alla comprensione tematica e stilistica. La poesia di Gatto, arduo sperimentatore pur nel solco di una tradizione mai rinnegata, è di quelle che vanno lette e meditate affinché se ne possa gustare il succo intenso, affinché se ne colga la freschezza, l’immediatezza del dettato – pur nella (solo apparente, a volte, o voluta) difficoltà della forma – che è frutto di scelte lessicali sapide e sapienti, di accordi semantici e di cantante tramatura sonora (e almeno vanno ricordate, fra le piú alte espressioni – solo per fare un esempio –, testi brevi e densissimi come “Bambina” e “Cielo” da Morto ai paesi).
«Fu allora che la nostra poesia prese a parlare un linguaggio volutamente e coscientemente europeo senza per questo perdere quei caratteri di autenticità che avrebbero poi consentito ai maggiori un’operazione di saldatura con la parte viva della nostra tradizione». Cosí scrisse Carlo Bo, alludendo certo, in primo luogo, ad Ungaretti, ma anche Gatto riprende in mano il vecchio endecasillabo per dargli vita nuova, espressioni diverse, sostanza piena seppure spesso nascosta, a volte amorevolmente custodita.
La fatica della ricerca, la «parola scavata nella vita come abisso» (per dirla con lo stesso Ungaretti), fa preziosa l’arte, e rende schivo l’artista, teso a scrutare nel fondo dell’anima, a scoprire le parole essenziali della coscienza, ad esprimere le poche capaci di creare (o evocare) l’immagine.
E Gatto sosteneva: «Voglio che la poesia sia la sola a dire chi sono, come sono vissuto e perché, e con la naturalezza che le è propria». Alle parole si affida in umiltà la vita stessa, la propria, ma con l’orgoglio cosciente di chi non ha paura di apparire superbo, perché diventi “altro” da sé e parli, a chiunque abbia la capacità di intendere. Bisogna abituarsi ad «entrare nella poesia per la porta stretta»: faticare un po’ a capire per essere certi infine di avere, insieme al poeta, scoperto o ri-scoperto l’uomo (Fu Montale, nel ’33, a scrivere che Gatto era «destinato a entrare nella poesia passando per la porta stretta»).
«Noi – scrive lo stesso Gatto nel ’40 – siamo nella fretta di questo secolo oscuri simboli di un silenzio storico: non sapremo forse mai parlare di noi stessi e la poesia ci illude...». Ma non è proprio questa “illusione” a dare piú forza alla nostra ricerca esistenziale?
Giuseppe Napolitano
Osteria flegrea
Come assidua di nulla al nulla assorta
la luce della polvere! La porta
al verde oscilla, l’improvvisa vampa
del soffio è breve.
Fissa il gufo
l’invidia della vita,
l’immemore che beve
nella pergola azzurra del suo tufo
ed al sereno della morte invita.
Alfonso Gatto